I FALSI MITI SULLA REGIA AERONAUTICA

Di Nico Sgarlato

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La Seconda Guerra Mondiale si concluse con la sconfitta del Tripartito (Germania, Giappone e Italia) e dei suoi alleati. Per ciò che riguarda l’Italia, ed in particolare la sua Regia Aeronautica, le cose non avrebbero potuto andare diversamente, come si evince dal dato più emblematico: in tutto il periodo bellico in Italia furono prodotti 10.000-11.000 aeroplani, cioè una quantità inferiore a quella che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna fu totalizzata dai tipi di maggiore successo, come F4U Corsair, P-40 Warhawk, P-47 Thunderbolt, P-51 Mustang, Supermarine Spitfire, B-25 Mitchell, Vickers Wellington e B-24 Liberator (ma ce ne furono anche altri).
Il confronto, comunque non era impietoso soltanto dal punto di vista quantitativo: indipendentemente dai molti exploit di tipo che si potrebbe definire “sportivo” (come le trasvolate o i primati di velocità e di altitudine) buona parte del personale di volo e degli uffici tecnici soffriva di un certo… provincialismo. Intendiamo dire che la politica dell’autarchia (cioè l’autosufficienza) aveva portato il mondo aeronautico italiano ad una certa arretratezza. Per fare solo qualche esempio, la caccia faticò ad uscire dall’era del biplano, con i piloti che si trovavano spaesati di fronte ad ipersostentatori, carrelli retrattili e gli abitacoli chiusi. Non migliore era la situazione delle tecniche costruttive: quasi tutti i progettisti erano abituati a lavorare su strutture miste, con longheroni alari in legno, fusoliera con struttura a traliccio in tubi d’acciaio e rivestimento di tela e legno compensato; esistevano anche pregevoli realizzazioni interamente in legno (come i Cant.Z.506 e Cant.Z.1007) ma le loro cellule soffrivano le conseguenze dell’impiego di situazioni climatiche difficili e lunghi periodi di parcheggio all’aperto.
D’altra parte anche le infrastrutture erano carenti: gli aeroporti dotati di piste pavimentate erano pochissimi, gli ausili alla navigazione quasi inesistenti e i radar per la difesa aerea, di produzione tedesca, arrivarono solo a conflitto inoltrato.
Italo Balbo, prima sottosegretario e poi ministro dell’aeronautica. si rese conto che l’industria italiana non sarebbe stata in grado di superare il divario tecnologico e promosse una campagna di acquisizione di licenze di produzione che, tuttavia, nel campo delle cellule non ebbe gli esiti sperati: in pratica l’unico successo fu il Caproni Ca.100 che era basato sulla famiglia dei deHavilland Moth inglesi e, su scala inferiore alle aspettative, la produzione del Seversky P-35 come Reggiane RE 2000; procedette fino ad un certo stadio anche una trattativa tra Breda e Boeing vertente sul B-17 Fortress ma, come sappiamo, non andò a buon fine.
I contatti tra l’industria italiana e quelle degli stati che erano già visti quali potenziali nemici erano condotte senza alcuna pubblicità e ciò portò gli studiosi della partecipazione italiana al conflitto ad errori nelle loro valutazioni.
In genere alle macchine italiane si attribuiva un rapporto peso/potenza sfavorevole a causa dell’eccessivo peso delle loro cellule. Inoltre si criticava l’armamento, insufficiente in termini di volume di fuoco e di affidabilità delle mitragliatrici. Tutto ciò, in realtà, era vero soltanto in minima parte.
La pretesa pesantezza delle cellule valeva sopratutto per gli aerei costruiti in legno e quelli a struttura mista; ad esempio il CR.42 Falco pesava il 15% in più rispetto al Gloster Gladiator inglese direttamente comparabile, che aveva più o meno la stessa potenza installata. Quando anche in Italia si produssero aeroplani di concezione moderna, con cellula monoguscio in lega leggera, la situazione si capovolse: l’Aermacchi C.202 ed il Reggiane RE 2001 pesavano tra il 13 e il 18% in meno del Curtiss P-40E che era uno degli aerei più direttamente comparabili tra quelli degli Alleati; naturalmente questo è un confronto soltanto indicativo, perché la quantità degli equipaggiamenti inclusi nel peso a vuoto non era direttamente confrontabile.
Un vero e proprio falso storico (involontario e giustificabile) era quello che attribuiva agli aerei della Regia Aeronautica motori italiani scadenti: infatti, gli aerei da combattimento italiani volavano con motori costruiti da industrie italiane ma progettati all’estero. I materiali italiani però presentavano standard qualitativi inferiori e la stessa valutazione riguardava carburanti e lubrificanti ma i propulsori erano progettati negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna e, in qualche caso, erano stati addirittura migliorati dai progettisti italiani.
Tornando all’esempio del CR.42, il suo propulsore era il FIAT A.74. A seguito del programma riservato messo in moto attorno al 1931, nel1934-1935 gli ing. Fessia e Zerbi, partendo dal progetto Pratt & Whitney R-1535 Twin Wasp Junior, che rientrava nel pacchetto di licenze cedute dal costruttore americano, trassero l’A.74 Ciclone (nome che ebbe poca fortuna, probabilmente perché si confondeva con quello del Wright R-1820), con il quale introdussero svariate innovazioni importanti, tanto che è stato spesso considerato come un progetto originale. Tra l’A.74 e l’R-1535 vi erano svariate differenze progettuali che riguardavano le misure di alesaggio e corsa, ma anche costruttive. Queste erano dovute ad esigenze di produzione e all’adeguamento alle caratteristiche dei materiali disponibili.. La sua potenza era di 870 CV al decollo e 840 a 4.300 m e perciò non era realmente adeguato agli aerei da combattimento ma fu ugualmente montato sui cosiddetti caccia Serie 0 (CR.42, G.50, C.200 ed altri).
Nel caso del C.202 e del RE 2001, il loro motore era l’Alfa Romeo RA.1000 Monsone, cioè l’eccellente Daimler-Benz DB 601A-1. La potenza nominale del motore Daimler-Benz era di 1.175 CV al decollo, a 2.500 giri/min per un massimo di 60 secondi (ma sembra che fosse attorno a 1.075 CV per gli esemplari di costruzione italiana), e di 1.040 CV a 2.400 giri/min a 3.600 m; questo secondo dato nella pratica variava tra 1.000 e 1.120 CV, sempre al regime massimo continuativo di 2.400 giri/min, a quote comprese tra 3.600 e 4.500 m, con valori mediamente del 2-3% più alti per i motori cquistati direttamente in Germania.
Nel campo dei motori radiali l’Alfa Romeo ottenne le licenze dei Bristol Pegasus che diedero origine agli AR.125, AR.126, AR.127, AR.128, AR.129 e AR.131 destinati ai plurimotori, così come del Mercury IV i cui elementi furono alla base dell’AR.135 Perseo, in pratica costituito da due Mercury in tandem. La FIAT ebbe anche la licenza del DB 605A-1, che diventò RA.1050 Tifone e fu alla base dei caccia Serie 5. L’Isotta-Fraschini, oltre ai tipi di concezione propria della famiglia Asso, ebbe la licenza dei francesi Gnome-et-Rhône 14K Mistral Major, del progetto dei radiali G&R Mistral, Titan e Mistral Major (che a loro volta erano basati su radiali Bristol) beneficiò la divisione motori della Piaggio che realizzò gli Stella, i Turbine ed altri, in alcuni casi rielaborati dagli ing. Mancini e Spolti.
Da un punto di vista progettuale le versioni italiane dei motori stranieri erano ineccepibili e le manchevolezze erano tutte legate ai materiali autarchici ed ai carbolubrificanti; non si può, però, fare a meno di dire che i motori in generale, qualunque fosse la loro origine, erano sempre una delle parti più critiche dell’impiantistica degli aeroplani.
Abbiamo visto, quindi, che dopo che anche in Italia ci si era convertiti alla costruzione interamente metallica, gli aerei non erano più pesanti di quelli prodotti altrove; semmai. la perdita di potenza dovuta alle cause legate ai materiali per la produzione e di consumo ne riduceva il carico utile (carburante, munizionamento ed accessori).
E veniamo al terzo punto, cioè l’armamento “di lancio”, com’era chiamato con un termine assolutamente fuorviante, quello rappresentato da mitragliatrici e cannoni. Anche in questo caso, quando si parla di mitragliatrici italiane si rasenta il falso storico, La quasi totalità delle armi di bordo, con l’eccezione di un piccolo numero di Isotta-Fraschini/Scotti usate esclusivamente come armamento difensivo dei plurimotori, era costituita dalle mitragliatrici SAFAT. La Società Anonima Fabbrica Armi Torino, costituita per produrre una mitragliatrice progettata dagli ing Revelli e Mascarucci, diventò una sorta di marchio “di copertura” per l’arma Serie B (Mod.1928 Aviazione) da 7,7 mm, risultato dell’acquisto della licenza di produzione della Browning M1919 da 7,62 mm, accompagnata da quella per la M1921 (più nota come Colt M2) da 12,7 mm; a questo riguardo, alla confusione si aggiunge il contributo della letteratura tecnica inglese e americana che fa riferimento all’arma da 7,62/7,7 mm come M1919, M1921, M1922 ed M2 mentre quella da 12,7 mm era definita anch’essa M1921 ed M2, L’ing. Soncini della Breda adattò il progetto delle due armi americane, modificando il tipo più piccolo (come Breda Mod.1928) per passare dalla cartuccia 7,62×63 mm alla 7,7x56R ed il tipo più grande, la Mod.1935, dalla cartuccia 12,7×99 alla leggermente meno potente Vickers 12,7x81R.
Va aggiunto che le armi derivate italiane presentavano modifiche non trascurabili, in particolare riguardanti il movimento dell’otturatore, il percussore e il sistema di alimentazione e l’espulsione dei bossoli. Inoltre, le cartucce italiane in questo calibro, prodotte da BPD ed SMI, erano disponibili con una varietà di pallottole ineguagliata: perforanti, traccianti, esplosive, incendiarie ed anche con più effetti combinati. Una tale varietà, che rendeva le “dodici-e-sette” italiane particolarmente efficaci, dagli altri belligeranti era riservata ai calibri maggiori (a partire dai 20 mm).
Ma anche l’armamento dei caccia italiani presentava dei nei: le due armi, che a lungo furono lo standard, erano montate nel muso e richiedevano un sistema di sincronizzazione tra il rateo di fuoco e la velocità di rotazione dell’elica, che incideva sensibilmente sulla cadenza di fuoco (che passava da 700 a 575 colpi/min). Si sarebbe potuto ovviare montando l’armamento nelle ali, soluzione preferita da America e Gran Bretagna, ma piloti e progettisti italiani temevano che le masse rappresentate da mitragliatrici e munizioni relativamente lontane dal baricentro sarebbero state causa di inerzia lungo l’asse di imbardata e di una maggiore dispersione dei colpi.

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